“Non è solo un casco”: cosa nasconde l’oggetto più importante della MotoGP

Sottotitolo: Dai caschi in pelle degli inizi ai materiali ultraleggeri usati oggi in MotoGP, il progresso tecnico è stato una corsa parallela alla sicurezza

Quando un pilota entra in pista, le mani sudano dentro i guanti, il battito accelera e la moto vibra sotto di lui. Tutto è calcolato in anticipo, niente è lasciato al caso. Eppure esiste un solo elemento che deve essere perfetto ogni volta, senza margini d’errore: il casco.

Un oggetto che non è solo aerodinamica e sponsor, ma un concentrato di ingegneria pensato per resistere a impatti che l’occhio umano non riesce nemmeno a immaginare. Oggi un casco omologato FIM, lo standard più alto del motociclismo, pesa meno di un chilo e mezzo, resta saldo a oltre 350 km/h e protegge nei momenti in cui ogni frazione di secondo può cambiare una vita. La sua evoluzione è lunga quasi un secolo e racconta un percorso segnato da idee, errori, intuizioni e, purtroppo, incidenti che hanno insegnato molto.

Dalla pelle all’era del composito

Negli anni Trenta e Quaranta i piloti scendevano in pista con semplici copricapi in pelle, senza visiera e senza una vera protezione. Erano più accessori estetici che strumenti di sicurezza. Gli urti venivano affidati più alla fortuna che alla tecnologia. Tutto cambia nel 1953, quando lo statunitense Charles F. Lombard brevetta il primo casco con una calotta rigida esterna e un rivestimento interno assorbente. Nasce l’idea di una struttura a più strati, la stessa che sorregge i caschi moderni. Nel 1954 la rivoluzione si sposta in Italia, quando AGV presenta il primo casco in vetroresina, un materiale che assorbe gli impatti e apre un capitolo nuovo: i caschi diventano dispositivi di sicurezza veri e propri.

Evoluzione
L’evoluzione dei caschi-legahockeypista.it

Negli anni Sessanta, dagli Stati Uniti arriva il Bell Star, primo casco integrale venduto in serie. Protegge anche mento e viso, riduce in modo drastico i traumi facciali ed entra nella storia del motorsport. Cresce l’attenzione intorno ai grandi campioni, e negli anni Settanta AGV e Shoei realizzano modelli specifici per chi decideva il destino delle corse. Il celebre AGV X3000 di Giacomo Agostini ha una forma più ribassata, migliora la visibilità in piega e abbatte la resistenza all’aria quando il pilota si rannicchia sul serbatoio. Un piccolo dettaglio dagli effetti enormi.

Negli anni Ottanta entra in scena il Kevlar, la stessa fibra usata nei giubbotti antiproiettile. Rigido e leggero, viene combinato con la fibra di vetro per ottenere protezione e riduzione del peso. Si passa poi ai compositi ibridi degli anni Novanta, fino al carbonio ad alte prestazioni che caratterizza l’epoca attuale. Ogni passo avanti nasce da un bisogno reale, quasi sempre dettato dalle cadute e dalle ferite che lo sport cercava, e cerca ancora, di evitare.

Come funziona un casco da MotoGP

Guardare un casco da fuori non basta per comprenderne il valore. All’interno si nasconde un sandwich di materialipensati per lavorare insieme. Lo strato più esterno è la calotta in fibra di carbonio, talvolta con filati 3K o 12K, sigle che indicano quanti filamenti contiene ogni fascio. Questa armatura non deve rompersi, ma distribuire la forza dell’urto su una superficie ampia. Subito dopo c’è l’EPS, una schiuma a densità variabile. Si schiaccia istantaneamente, assorbe energia, frena la decelerazione che colpisce il cranio. Più dentro ancora ci sono imbottiture ergonomiche, capaci di adattarsi al volto, drenare il sudore e resistere ai batteri.

Le visiere in policarbonato devono superare test estremi. Ogni visiera deve sopportare un proiettile d’acciaio da 6 mm sparato a 250 km/h senza rompersi. Davanti agli occhi i piloti montano le tear-off, pellicole trasparenti che durante la gara vengono strappate via per liberare il campo visivo da sporco, gomme e moscerini. A volte sei una dietro l’altra, quasi come vite di riserva. Il casco, ovviamente, deve anche andare d’accordo con l’aria. A 300 km/h basta una turbolenza sul casco per far tremare la testa e perdere la traiettoria. Per questo ogni forma viene studiata in galleria del vento, insieme alla moto e al corpo del pilota.

La FIM impone crash test severissimi: prove d’urto su incudini metalliche, test di rotazione per valutare i movimenti del cervello nella scatola cranica, esami sul cinturino. Se un dato supera la soglia, il modello non ottiene l’omologa e resta fuori dalle gare. Non c’è spazio per compromessi quando la velocità cancella il margine di errore.

C’è poi l’aspetto più umano. I caschi raccontano chi è il pilota. Valentino Rossi, per esempio, ha cambiato la storia anche qui, chiedendo visiere più ampie e portando sui circuiti grafiche che sono diventate icone pop. Un casco da MotoGP non è solo protezione. È carattere, orgoglio, spesso un pezzo dell’anima di chi lo indossa. E quando la visiera si chiude, è l’ultimo confine tra la vita e la pista.